Al MAO di Torino dal 12 novembre al 25 aprile è aperta al pubblico la mostra Kakemono – Cinque secoli di pittura giapponese, a cura di Matthi Forrer, professore di Cultura materiale del Giappone pre-moderno all’Università di Leida.
La filosofia dei kakemono: tra tempo e mutevolezza
Un rotolo di tessuto prezioso (o carta) dipinto o calligrafato, pensato per essere appeso durante occasioni speciali o utilizzato come decorazione in accordo alle stagioni dell’anno: il kakemono o kakejiku.
Un genere di opera dipinta estremamente diffusa in Giappone e in tutta l’Asia orientale, dove assume nomi differenti. Kakemono, i “rotoli appesi”, sono distintivi della produzione pittorica di Cina, Corea e Vietnam, oltre che del Giappone stesso. Rappresentano il corrispettivo del quadro occidentale.
A differenza delle nostre tele o tavole, caratterizzate da una struttura rigida, i rotoli dipinti presentano una struttura relativamente morbida e sono pensati per una fruizione limitata nel tempo.
Esposti nel tokonoma (alcova) delle case giapponesi o lasciati per qualche ora soltanto ad oscillare nella brezza di un giardino, queste opere d’arte partecipano del tempo e del movimento, mentre i dipinti su tela o tavola tipici della tradizione occidentale sembrano invece impregnati di fermezza e di continuità.
Le differenze non sono solo puramente formali, ma riflettono anche una diversa concezione estetica e filosofica: alla base dei kakemono si trova un’allusione all’impermanenza e alla mutazione quali elementi ineludibili (e positivi) dell’esistenza.
La mostra al MAO “Kakemono. Cinque secoli di pittura giapponese”, la prima in Italia focalizzata su questa forma d’arte, presenta 125 kakemono oltre a ventagli dipinti e lacche decorate appartenenti alla Collezione Claudio Perino.
I kakemono, allestiti in cinque sezioni tematiche (fiori e uccelli, animali, figure, paesaggi, piante e fiori) conducono il visitatore attraverso un mondo ricchissimo, in cui rappresentazioni minuziose e naturalistiche, punteggiate di dettagli sottili, si affiancano ad immagini estremamente essenziali e rarefatte, dove la forma perde i suoi contorni, si disgrega progressivamente per diventare segno evocatore di potenti suggestioni, in un estremo esercizio di sintesi e raffinatezza, quasi un astrattismo ante litteram.
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